Era solo un catino, 1999, Racconto tratto dal Libro di Giovanni Borioli Il Giorno della Margherita, Edizioni Armando Dadò

Raccontare un quadro non é di tutti i giorni. La scintilla si era insinuata nel Nino visitatore fin dal primo bagno nell’affollato vernissage con la Cici allo Studio d’arte di Mendrisio per la personale di Marco Lupi. Mondo di ricordo, prepotenza del sogno, soffusa e complessa atmosfera di un incontro che evocava da subito riferimenti paralleli, matrici viscerali, sommovimenti inconsci, archetipi forse. Evidenze tentacolari prima di fermarsi su quell’ultimo in particolare. “Era solo un catino di zinco“, 50 x 50, tecnica mista. Ma contemplare non bastava. Sensibile intermediario Carlo Gulminelli in appartati momenti di selezione delle scelte, attento ad afferrare agganci, segni di lettura. Profilato infine quel catino, pervasivo rosato in sottofondo, nient’affatto dolciastro nostalgico, in drammatico contrasto con un’intrigante immagine femminile. Testa emergente come da vapori di remote atmosfere, senza braccia. Gradazioni da marrone a beige di una più terrena appartenenza. Materno ancoraggio?

Finzione del racconto, rovesciato Pirandello, l’autore stavolta in cerca di personaggi. Uno, nessuno, centomila? Mettiamo che il nostro sia Uno. Troppi i centomila d’un ipotetico collettivo, niente concorrenza infine col Nessuno vagante Odisseo del mito omerico. Il sogno di Marco, allargato universo onirico. Stanza di un’altra dimensione, come se lavorando Uno vi entrasse con irruenza. Inarrestabile, primordiale moto creativo. Reconditi significati potevano venire in seguito (i titoli Marco li avrebbe messi dopo). Energia vitale, prorompente ritorno al bambino originario, favoloso mondo mitico in punta di pennello e frammenti materici di giornali, cartoncini ondulati, indefinibili altri grumi. Materialità del mondo bambino, recuperata dimensione di crescita, di conoscenza: chi crea a posteriori, ri-crea. “I drammi hanno già in qualche modo subìta una loro catarsi“. Magia del mito rifatta coscienza di sé, conferita realtà al sogno per rinnovato suo statuto. Poesia della tenerezza, allusive tenui tonalità delle tinte. Forme, personaggi pudicamente accennati. Nostalgia, leggerezza infantile? o insopportabile leggerezza dell’essere?

Le tempeste nel catino. Anche quell’oggetto del nostro intendere a scatenare. Sfocate derive che neanche la fantasia più accesa avrebbe sospettato, rifatte nitide sotto più puntato obiettivo. Uno le aveva forse solo rimosse, mentre ora se le riscopre dentro prati straripanti di crocus gialli e violetti, bucaneve e anemoni nella piccola distesa oltre il davanzale sotto casa, sul ciglio del muraglione , o dietro la cancellata del giardino alla fermata del filobus di Vignola, antistante la villetta del vecchio Nido d’infanzia. Vite concatenate nelle altalenanze di nascite e morti, gioie e sofferenze, come per regia di ripresa fotografica. Sovrapposizione a quell’Uno, il Nino aveva obliterato per l’ennesima volta l’abbonamento al portatore dopo la visita di controllo medico, contenuto che i parametri finora conosciuti segnalassero un tutto a posto. Sospensioni del precariato esistenziale in agguato, ora si poteva passare dal Pedro a ricomporre il vuoto del digiuno mattutino imposto dalle necessità del prelievo programmato. Senza più mugugni, però, nemmeno a distanza con la madre dell’età più tormentata, di „perché mi hai messo al mondo“.

Prati fioriti, dunque. Piccole, grandi, variopinte distese dell’ignara beata stagione infantile. Felicità del non conoscere? Quando la madre dell’Uno, anzi, in quei prati portava il catino con l’acqua da intiepidire al sole pomeridiano, attimi di distensione per sé, di divertimento per il bambino. Ore spensierate per entrambi. Sguazzare liberamente, il piacere del piccolo, compiaciuta felicità della madre, compartecipe sua proiezione. Tanto l’aveva cresciuto in sé, liquido amniotico suo contenitore, prima che lo esternasse alla nascita per lo stacco del cordone ombelicale. Altra crescita da sé dopo quel taglio determinante. Non più dipendenza? Relazionalità, sessualità distinta, separazione? Paura dell’autonomia dichiarata, irriconoscenza del figlio, quando questi ormai undicenne chiedeva il permesso di frequentare i corsi di nuoto al Lido. Malcelato ancestrale rifiuto di quel “liquido primordiale“? Oppure ritorsione colpevolizzante per uno stacco, paventato abbandono, madre cattiva senza mani a sorreggere, senza cuore? Ambivalenza del necessario, dualismo delle dipendenze, del dolore generato dall’avanzare della crescita, il cambiamento che solo l’esperienza diretta può portare l’Uno a riconoscersi. Identità individuale distinta e congiunta insieme. Globalità di un’esperienza nel parallelo innegabile col grembo di una madre terra altrettanto abbandonica, natura deviata oggi dal degrado ambientale, dagli inquinamenti atmosferici. Catino, catini. Roba da spazzatura, rifiuti ingombranti, inequivocabili segnali del Rifiuto. La crisi evidente in conclusione.

Una crisi, quindi, che parte da lontano. Strutturale essa pure, dell’economia dell’uomo. Quand’anche possa suonare un pochino dissacratorio. Diciamo per analogia. Qualcosa di proprio della persona, che ciascuno di noi si porta dentro. Talora più esplicito e manifesto, talaltra nascosto, sotterraneo. In continua rielaborazione, né più né meno di certi „rodimenti“ di memoria del disco fisso di un PC. Impaziente l’operatore alla tastiera di prendere le briglie di comando delle operazioni. (La macchina e l’uomo: la macchina deve servire all’uomo, non viceversa. Che diamine!). Momento, passaggio necessario. Ineludibile. Evitamenti sono impossibili. Rimozioni rispuntano a distanza quando meno te l’aspetti. Sconcertanti all’occorrenza. La trasgressione a suo tempo, il conflitto a viso aperto o la fuga. Segmenti del conflitto frontale e fughe a singhiozzo. (Amore sbocciato a Londra alla prova del nove. Ragazza di qui che ti sei attaccata al giovane messicano, non c’é oceano che trattenga a colmare distanze più grandi delle paure genitoriali, pretesti la crisi occupazionale, le differenze di mentalità, il dispiacere, disaccordo dei familiari, la somma delle negatività immaginabili. Bene é che tu vada laggiù. Sofferenza é per tutti, già questo morir d’inedia qui. Meglio la trasparenza subito). Gamma infinita delle singole esperienze per ritmo, cadenze, rinvii. „Finché morte non vi separi“! Come per l’istituzionalizzazione di un rapporto. Stare al gioco, dentro o fuori, si o no.

La madre cattiva ti ha espulso da sé. Dopo che ti ha portato, nutrito, cresciuto dentro. Illuso? Anello della catena che fa di lei stessa strumento e vittima di un disegno sovrastante. (Quale ribellione possibile o libertà di scelta se tutto appare predeterminato? Catena degli interrogativi, soglia della conoscenza. Onnipotenza non ci compete. Non é ancora il tempo della luce piena. Consumarsi nella prova intanto. Sperare é troppo poco?). Madre cattiva non si dà per questo. Altro allora é l’abbandono. Fisiologico é il grido alla nascita, altro quello della lotta per il sé. Conquista dell’autonomia, provarci, per un’identità distinta e complementare nelle reti del collettivo. Gioco perverso le contrapposizioni di vita e morte. È tempo di sfide, di rischi. Ordalie, la roulette cinese di Werner Fassbinder o russa che sia. Attitudine suicidale, radicalità del malessere giovanile che ci sta davanti. Rimozioni riaffiorano quando scopri irrisolta la conflittualità adolescenziale semplicemente rinviata ai declini dell’età biologica. Non più solo giovani, se il riferimento economico dominante alimenta brutali prospettive di crescita dei poveri rispetto al ridotto numero dei sempre più ricchi. Candidati suicidi questi ultimi, perché non sapranno più come godersela la loro spropositata ricchezza? Potrebbe essere qui il punto focale delle nostre paure: ricchezze da perdere, vanificato benessere senza ricambi ipotizzabili. O che dovremo toccare il fondo, non avere più nulla da perdere per un vero auspicabile riscatto? Umanità in risalita, rifatti protagonisti del nostro destino, finiremo un giorno le improduttive lamentazioni.

Notizia d’agenzia: le tracce del paradiso terrestre portano in Africa. Favoloso eldorado o biblico eden – eterni dissidi tra sacralità religiosa e laicità profana -, ci mancavano i progenitori colorati adesso. Adamo ed Eva belli scuri, negri perché no! in barba alla più radicata tradizione degli eurocentrici bianchi cristiani?! Nuovi esami di reperti porterebbero a situare da quelle parti il mitico luogo delle nostre origini. Madreterra, giardino di nostalgiche delizie, madre buona depositaria di rosei orizzonti, destini di un’umanità irriconoscente. Fatti noi stessi contro natura. Cosa ci ha mosso contro, se quel medesimo sole benefico dei prati infantili – ozono non più ozono – é divenuto distributore d’infiltrazioni malefiche sulla pelle di nuove generazioni indifese? Mistificate armonie del creato su quali memorie? Ordine sconvolto per quale trasgressione e sensi di colpa conseguenti per condanne eterne?

Maternale. Il sogno di Marco. Conturbante immagine monca a piè di tela, estatico manichino. Troncone figurato, tronca la madre. Tronconi di madri, tronconi dell’uomo. La madre mutilata, l’uomo mutilato. Immemori noi, mutilata madreterra quand’anche insensati i figli. Nonna Onorina, madre mutilata, stroncata dal dolore per la disgrazia ferroviaria che le aveva strappato il suo uomo. Lo strazio nel vivo della propria carne – quarantenne bruscamente vedova con cinque figli a carico – avevano dovuto amputarle la gamba destra per l’insorto diabete. Articolazione aggiunta, le era stata applicata una protesi. Altre articolazioni a sorreggere, le stampelle, grucce di legno con supporto imbottito al sottoascella. Massicce, i tamponi di caucciù, gomma nera per puntare il passo, le impugnature a lunghezza di braccio. Braccia e mani, poco più di un sostegno per sopravvivere.

Subentravano qui, vitale supporto, le braccia e le mani della nuora. La Margherita, gli straordinari annunciati per le due case. La propria e quella della nonna. Quell’Uno, Nino spettatore a registrare. Instancabili mani, senza riserve o riguardi particolari. Vederle alla fontana sotto la tettoia del cortiletto interno. Congestionate . C’era un bel scaldare l’acqua del bollitore a legna, domestica lessiveuse, quando il bucato grande era riservato alle lenzuola del lettone matrimoniale. Se vanto poteva essere la qualità del tessuto di una curatissima scherpa (la dote), oltremodo pesanti erano da torcere e ritorcere prima di stenderle ad asciugare. Gran lusso, invece, era la vasca da bagno con fornello a gas, il boiler, per l’acqua calda in casa. Semplice attenuazione delle fatiche. E la pulizia periodica di fino della cucina economica, la stufa a legna unico riscaldamento interno. Rito del primo mattino a precedere i familiari quando già era partito il suo Carlo che iniziava il presto. Mani incredibili a rovistare le ceneri residue – scostati i cerchi concentrici dei fornelli -, da togliere a mani nude…

Elogio delle mani, delle braccia. Infaticabili. Le une e le altre definite d’oro per quel mestiere altrettanto prezioso della sarta – intermediari domestici manichini -, complemento e contenimento dell’economia domestica. Benedetti soldi sempre misurati, acrobazie straordinarie che solo un grande amore totale, un’assoluta dedizione sapevano inventare fino alla consumazione di tutta una vita. Epica della quotidianità. Eroicità di una donazione di sé, substrato portante della quotidianità fedele, che non si concedeva pause o distrazioni. Preziosità sopratutto per la Margherita, rimasta vedova a sua volta con figli a carico, stroncato il marito in ancora troppo giovane età. Sublime femminile oltre le mimose e le ricorrenze celebrative. Irriconoscenza possibile lo sganciamento? Sganciamenti si, ma non rifiuto. Non poteva essere altrimenti. Non avrebbe disturbato se l’immagine a distanza della prima madre, riscoperta Eva matrice universale, fosse stata nera. Nessuna preclusione, interrazzialità coerente nell’operatività successiva di figli accolti dal lontano Estremo Oriente nella casa del Nino, nella catena delle famiglie.

Distanziato si, staccato no. Potere del sogno, evocazione di un altrove alle viste. E si doveva essere solo un catino di zinco. Scatenato catino del Marco. Ora la meditazione può diventare pacificazione, elaborazione del lutto, la quiete dopo la tempesta. Spazio alla contemplazione.

Note dall’ultima pagina del romanzo:

Giovanni Borioli (Nino), nato a Lugano (Molino Nuovo) nel 1931, morto a Massagno nel 1997. Docente, ha studiato pedagogia all’Università cattolica di Milano. Nel 1995 ha pubblicato il romanzo autobiografico Casa lontana per le edizioni Alice di Comano.
Racconti senza frontiere compongono questo libero autobiografico, per l’autore una sorte di complemento di Casa lontana da lui scritto nel 1995. Margherita, la donna e madre che lo ha messo al mondo; margherita, l‘umile fiore degli strappi, del „m’ama non m’ama“.
Memorie domestiche, affetti, nostalgia, ma pure storia e cronaca; l’esserci responsabilmente, lo schierarsi. Vi scorrono tracce di vite nel loro cammino tra sperante e fatiche, gioie e dolori. Ricorrente la ricerca del senso dell’uomo e dell’esistenza. Una scrittura, anche ironica, nata da intrecci di letture, riflessioni, esperienze, quasi senza luogo né tempo.
Dopo questo lavoro liberatorio l’autore avrebbe finalmente realizzato il progetto che gli stava a cuore: scrivere un libro per bambini, illustrato dall’amico Marco Lupi. Il destino ha deciso altrimenti